IMAGEMAKING: la decadenza del B/W.

La decadenza del B/W:
Russell Metty fotografa “The misfits” (Gli spostati) – 1961 – di J. Houston.

Gli spostati è, per molti versi, un film testamento.
Fu l’unico film scritto esclusivamente per il grande schermo da Arthur Miller. Clark Gable muore pochi giorni dopo le riprese. Per Marilyn Monroe fu la vera ultima interpretazione; non finirà mai le riprese del film successivo ‘Something’s got to give’. Morirà nell’agosto del 1962.
Ma adesso parliamo della fotografia del film.
Quando una luce ci acceca, quando il bagliore di una sorgente luminosa colpisce direttamente i nostri occhi, che colori ricordiamo della scena osservata? Nessuno. La forte luminosità azzera il croma e percepiamo soltanto un indistinto bianco. ‘Gli spostati’ è un film fortemente luminoso e, per questo, giustamente in B/W. Decadente e decaduto, il B/W del film è un bagliore che suona come un passaggio finale. Una catabasi per arrivare nell’Ade. Immersi nella pioggia di luce, non dobbiamo (con)notare la scena per quel che mostra. Bisogna percepire l’invisibile. La decadenza, per l’appunto, segna la caduta di un’idea. Un’ideale che necessariamente deve fare i conti con la realtà, con i tempi che segnano quell’aspirazione. ‘The misfits’ recita il titolo in inglese. E la corretta traduzione è ‘I disadattati’, che rende ancora di più il senso del finito, del passato. Un’idea che decade, diviene mortale. “Tutti stiamo morendo. Ogni minuto ci avviciniamo alla morte”, dice M. Monroe mentre balla in una scena. La macrosequenza nel deserto è fotograficamente e testualmente la fine di un’epoca. R. Metty fotografa il deserto del Nevada come un Caronte che trasporta su negativo la fine del far west. Gli ultimi cowboy sono degli sciacalli, dediti all’alcool, che commerciano carne equina per farne cibo in scatola. Il loro destino è la solitudine perché non sanno amare con sentimento (ecco che, se tradotto letteralmente, il titolo suona ancora meglio).  Il deserto del Nevada e la piccola cittadina di Reno al confine con la California – il mitico far west – non sono che l’invisibile specchio della città dei giochi e delle facili fortune di Las Vegas, indelebile contrappasso del nuovo che avanza e che lascia senza futuro, in una polvere di sabbia al vento, gli appartenenti alle vecchie generazioni (e non solo anagraficamente).
R. Metty – già best cinematography per ‘Spartacus’ di S. Kubrick, e DoP, fra l’altro, di ‘The stranger’  e ‘Touch of evil’ entrambi di O. Welles (memorabile il piano-sequenza iniziale di quest’ultimo) – si è sempre contraddistinto per uno stile play of light and shadows. Il gioco di ombre e luci che lo ha segnato inconfondibilmente nel film di O. Welles ‘The stranger’, nel film di J. Houston è azzerato dal deserto. Cielo e sabbia hanno la stessa esposizione. Una pari brillanza fra cielo e terra che è raro poter trovare. La scena della cattura dei mustang è eterea, senza ombre e senza contrasto. Ci resta in testa il ricordo di un bianco che si mischia alla polvere e che allontana la fisicità dell’azione. M. Monroe, spesso fotografata con un soft focus, è eterea come il deserto. Unico personaggio ‘bianco’ fra i tanti ‘neri’ che la circondano, lei è l’ultima ‘naturale’; esposta con la stessa brillanza del deserto, è come un elemento luminoso scenografico. Tanto quanto la location. Neanche la notte deve essere ‘nera’. Gli EXT.NIGHT sono un classico esempio di day for night, la cosiddetta notte americana, girati sottoesponendo di 2 stop con l’aggiunta del filtro Polar che rende tutto più contrastato, lasciando sullo sfondo il cielo inevitabilmente ancora troppo luminoso per una vera notte. Del film ci resta il ricordo di un B/W che sparge senza distinzioni in tutte le direzioni i suoi raggi luminosi. Nessun colore per la fine di un’epoca.

A. B.