Intervista a Roberto Cimatti

L’intervista è un’integrazione dell’articolo di Pasquale Russo già on line sul nostro sito. clicca qui

SHOT Cafe’; il 27 novembre 2010 incontro con Roberto Cimatti.
Tema della serata: il DoP che verrà. clicca qui

 

 

 

 

Quando hai mosso i primi passi nel mondo del cinema?
Ero studente al Dams di Bologna, in una delle prime sedi, dove frequentai per un paio d’anni molti corsi che m’iniziarono a quello che era il mondo dello spettacolo.
Per dirla in breve, durante uno di questi corsi conobbi Gian Vittorio Baldi, regista e produttore, al quale chiesi, assieme ad altri studenti, se potevo partecipare a un film che lui avrebbe prodotto di lì a poco. Mi disse che potevo venire da volontario, ma poiché volontario ovviamente non sarei stato pagato. Accettai e sul set di quel film, a Roma, stetti un mese, durante il quale spesi tutti i miei soldi. Dovevo pagare anche il cestino del pranzo. Il film si chiamava “Augh Augh, l’indiano ritorna”. Il direttore della fotografia era Cristiano Pogány, figlio di Gábor Pogány. Quella è stata la mia prima esperienza su un set di professionisti, ovvero di persone che guadagnano e ‘vivono’ di questo mestiere. Era il lontano ’78.

Il tuo primo film da direttore della fotografia?
Ho cominciato con piccoli cortometraggi, come può succedere a un regista esordiente e inesperto. Si va alla ricerca di situazioni che possano dare responsabilità. Perché, a mio avviso, i vari livelli professionali, assistente, operatore e direttore della fotografia, sono molto diversi fra loro. Questo non significa che non possono essere saltati, ma vuol dire che per ognuno di questi ci sono responsabilità e compiti notevolmente diversi. Aver fatto esperienze precedenti non basta, perché è quasi come ricominciare ogni volta da capo. Quando sei direttore della fotografia, devi creare un tuo rapporto con le persone della troupe, non hai più il maestro che ti copre. Poi c’è anche il discorso del cercarsi lavoro, considerando che nessuno ti chiama se non sai promuoverti. Insomma i parametri cambiano. Lo stesso esposimetro non diventa più un oggetto che, solitamente da subordinato, usi per il direttore della fotografia, ma un qualcosa che adoperi per una tua scelta. Poi, ovviamente, quando passi da una posizione all’altra nessuno ti chiama più per il ruolo che avevi ricoperto in precedenza.

Quando hai conosciuto Giorgio Diritti?
Ho fatto la conoscenza di Giorgio su un set di Pupi Avati. Verso la fine degli anni ottanta Giorgio Diritti frequentava, a Bassano, un gruppo molto giovane e vigoroso che si chiamava “Ipotesi Cinema”; faceva capo ad Ermano Olmi. Avevano già prodotto molti documentari e molti cortometraggi per la Rai. Giorgio allora mi ricontattò per farmi conoscere cosa facevano in questo gruppo, e quando andai notai che c’era molto fervore, anche se non c’erano soldi. Con loro Giorgio riuscì a produrre uno dei suoi primi cortometraggi “Cappello da Marinaio” per il quale mi chiese di curare la fotografia. Girammo in 16mm, con due lire. Da li, salvo che per qualche altro documentario, ci perdemmo di vista per qualche anno.
Poi nel 2003 mi parlò di questo progetto, “Luserna”. Non c’erano soldi perché la Rai non era interessata, quindi pensammo di produrlo con le nostre forze. Giorgio insieme ad altri due soci, Simone Bachini, con cui fondò l’AranciaFilm e Mario Chemello, della società Imago Orbis. Ovviamente non c’era la possibilità di girarlo in pellicola, quindi farlo in digitale diventava una scelta obbligata. Ci fece forza sapere che già diversi erano i film girati con mezzi leggeri, uno fra tutti “Le onde del destino”. A quei tempi poi cominciavano a essere prodotte le prime apparecchiature che permettevano di passare il materiale digitale su pellicola e fare copie per la proiezione cinematografica.
Quindi ipotizzammo di realizzare questo film con una Panasonc 100. Facemmo diversi test e vedemmo che, tutto sommato, c’era la possibilità di ottenere buoni risultati. In quel caso posi una condizione: anche se avevamo quattro soldi dovevamo mirare alle sale e quindi alle copie in pellicola. Girammo in tre stagioni quello che poi sarebbe stato “Il vento fa il suo giro”.

Girare L’uomo che verrà in digitale è stata una scelta o una necessità?
Qualsiasi regista che si ritrova a girare in digitale ha comunque più disponibilità di materiale di ripresa, tenendo conto che è possibile acquisirlo su schede che possono essere riutilizzate, oppure, come nel caso del “Vento…”, per il costo delle MiniDV che non era assolutamente proibitivo. Questo ovviamente non vuol dire che la produzione non dia dei paletti. Rispetto a “Il vento fa il suo giro”, un film che nei presupposti aveva un carattere molto indipendente, per il quale certi costi non erano neanche considerati, “L’uomo che verrà”, aveva altre caratteristiche. Da un punto di vista produttivo, quindi il dilemma sul digitale e la pellicola non era poi così pressante.  

Alla fine hai optato per la Panasonic AJ-HPX3000.
Prima di girare il film ho voluto realizzare diversi test, su diversi supporti. Durante queste prove, ho confrontato la Panasonic con la Red One, che a quei tempi era una novità assoluta, e mi sono convinto ad usare la prima. In seguito ho proposto a Giorgio di girare nel formato panoramico 2:35, che avrebbe reso gli ambienti naturali ancora più ampi. Prendendo questa decisione ci siamo assunti alcuni rischi. Ipotizzare di girare in un formato cinemascope, attraverso una camera che ha un sensore di 2/3 di pollice, cioè un target di ripresa vicino al 16mm, era una bella sfida …Ma l’idea era intrigante e alla fine ci ha dato degli ottimi risultati.

Il film è stato girato interamente in ambienti reali?
In verità c’è un set, ma uno solo. Durante i sopralluoghi ci siamo resi conti che serviva uno spazio riparato per la scena del rifugio, dove Armando mette le lepri e poi si nascondono, per intenderci. La parte esterna è una vera tana che abbiamo trovato in maniera fortuita, cioè non l’abbiamo scavata noi. Dentro riuscivano a entrarci due o tre persone. L’interno è stato invece ricostruito da Giancarlo Basili, lo scenografo, in un piccolo spazio vicino al luogo delle riprese. Una sorta di magazzino, dove lui ha realizzato, con del legno, l’interno del rifugio e dove abbiamo messo la macchina da presa, cosa che non avremmo potuto fare nella tana vera. È stato reso con molta verosimiglianza. La differenza tra interno ed esterno non penso si noti. Tutti gli altri sono ambienti reali.

Che tipo di problematiche comporta girare in ambienti reali?
Le problematiche sulle location non erano poche. Negli interni, ad esempio, non potevo mettere luci in alto, fuori campo, a causa dei soffitti, alti neanche tre metri. Ho cercato una fotografia che giustificasse in maniera realistica l’ambiente, senza stravolgere troppo la naturalezza del luogo e sfruttando, per i proiettori, lo spazio superiore al fotogramma del formato 2:35.

Che problemi hai avuto nei posti in cui il film è stato girato?
Le difficoltà maggiori sono state nel girare di notte, in situazioni di pioggia. Abbiamo messo molto in crisi i mezzi a disposizione. Bisogna tener conto che la pellicola, di norma, è più “strapazzabile”, con le attrezzature elettroniche invece bisogna essere molto più accorti.
I cinemobili s’impantanavano, durante le piogge, e spesso i vicini venivano con i trattori per tirarci fuori, quindi anche da parte degli abitanti del luogo c’è stato un supporto encomiabile. Alla sera tutte le cose che avevamo usato erano sporche e andavano nuovamente pulite. Era soprattutto il clima “la problematica”.

Ci sono alcuni piani sequenza nel film decisamente complessi da girare.
Il primo piano sequenza, che si vede nel film, era in realtà molto più lungo, partiva dalla cucina, quindi ancora più complesso… Giorgio, devo dire, mi ha dato molta tranquillità per realizzare le scene più difficoltose. Mi ha permesso di fare diverse prove. Non ero condizionato da un piano di lavorazione troppo rigido, pur considerando di aver girato in undici settimane e mezzo, in un clima molto gravoso, con pioggia e neve.

Ti piace lavorare di più con le luci naturali o con l’illuminazione artificiale?
Cerco di non stravolgere troppo l’ambiente, creando comunque una mia espressività. Dipende dai casi. In questo un’estrema naturalezza giocava a favore del film. Con un intervento troppo evidente, credo, che avrei intaccato anche la parte drammaturgica della storia. Quando faccio un sopralluogo, cerco soprattutto di capire che cosa ho a disposizione: quante sono le finestre, da che parte gira il sole, quando entra e come entra. 
Un esempio fra tutti: il comando tedesco è stato girato in un ambiente dal vero, in Toscana. Attraverso delle misurazioni abbiamo capito che il sole sarebbe entrato tra le undici e mezzogiorno. Nonostante il programma stabilisse che quell’inquadratura si sarebbe dovuta girare nel pomeriggio, Giorgio, invece, mi ha permesso di girarla nella fascia oraria che preferivo. In quel caso la luce del sole ha contribuito ad arricchire la scena. Se avessi utilizzato una ‘diffusa’ avrei ottenuto, a mio avviso, un risultato meno interessante.

Quando utilizzi i proiettori e gli altri tipi di corpi illuminanti che preferenze hai?
Per quanto riguarda il film di Giorgio ho ragionato considerando l’ambiente dal vero, oltre alla direzione del sole. Per ricreare un tipo di effetto solare, ad esempio, avrei potuto usare le luci a scarica, che nonostante siano fredde vengono solitamente utilizzate per ricreare la luce solare, invece ho fatto piuttosto uso di lampade ad incandescenza, magari convertite, per non lasciarle completamente arancioni, ma che rendevano comunque le atmosfere con un tono di luce più giusto. Soprattutto lampade Aircraft.

In alcuni passaggi del film mi era sembrato di notare delle notti americane.
Non sono propriamente ‘americane’ perché spesso la notte americana è realizzata in pieno giorno, in controluce, quelle invece sono state girate al crepuscolo. Tutte le scene sulla collina, dove Martina e la madre vanno a pregare, ho preferito non girarle di notte, perché avrei dovuto aggiungere della luce che avrebbe snaturato l’essenza del ‘quadro’. Girando al crepuscolo ho ottenuto quello che cercavo… La chiamavo “Ora Magritte” citando il quadro “L’impero delle luci”. Anche se girare una scena solo in un’ora, quella del crepuscolo, non era semplicissimo è stato comunque molto efficace. Per qualche scena, brevi e inquadrature fisse per lo più, ho anche utilizzato i degradè.

Solitamente come ti comporti con la color correction? Nell’uomo che verrà ti sei affidato molto alla post produzione?
Beh, durante la fase delle riprese, pastrocchiavo con i settaggi del monitor per avere un’idea di cosa avrei fatto poi. Il girato, non ancora ‘post-prodotto’, aveva colori troppo vivi. Per me la color correction è importante… Non vedo plausibile un lavoro senza color. Anche perché faccio un uso della camera con settaggi flat. Preferisco sempre avere uno standard, su cui poter lavorare poi successivamente.  Nel caso de “L’uomo che verrà” abbiamo chiamato un bravissimo colorist, di origini fiamminghe, che si chiama Bart Verraest e che ha contribuito molto nel dare un giusto look al film. Abbiamo fatto più di un mese di post produzione perché il passaggio tra digitale e pellicola non è stato per nulla facile. Abbiamo fatto la correzione colore da una parte e la stampa da un’altra… Ancora una volta diversi test.

Sul tuo sito* c’è una sezione dedicata al film nella quale fai riferimento ai quadri del pittore impressionista Jacob Camille Pissaro. Vuoi parlarcene?
La pittura mi ha sempre appassionato. Quando ero piccolo, mio padre mi portava spesso alle mostre e alle gallerie d’arte, quindi ho sempre avuto questo interesse per i dipinti. Prima di iniziare le riprese de “L’uomo che verrà” ho fatto una ricerca sugli artisti che dipingevano paesaggi agresti ed ho trovato diversi spunti. Mi sono documentato soprattutto sugli impressionisti francesi.

Puoi darci un’opinione su come il digitale viene utilizzato nel cinema italiano?
Sempre meglio devo dire, ad un primo momento di diffidenza si è passati ora ad una fase di reciproco interesse. Dico reciproco perché finalmente, da un paio d’anni in qua, si è smesso di obbligare, chi ne fa realmente uso, a girare con attrezzature provenienti dall’ambiente televisivo. Bellissime telecamere, per un uso essenzialmente televisivo, per l’appunto.
Altra cosa è una MdP per le riprese cinematografiche, con tutto ciò che ne consegue: ottiche con la giusta profondità di campo e con la giusta latitudine di posa, simile a quanto abbiamo visto fin d’ora in pellicola.
Inoltre in quest’ultimo periodo diversi laboratori si sono convertiti al processo digitale, con una visione concretamente più lineare dell’intero procedimento, dall’acquisizione del materiale girato, fino al Film Recording e la stampa.
Poi non bisogna trascurate l’arrivo delle macchine fotografiche che permettono le riprese in HD 1920×1080. Saranno anche ‘giocattoli’, per alcuni, ma certo hanno smosso un polverone che difficilmente potremo toglierci di dosso.
Non penso che il digitale ‘rende liberi’ rispetto alla pellicola, dentro c’è solo ferraglia, è solo un mezzo col quale riprendere, e sperimentare.

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